Ger 17,5-8, Salmo 1, 1Cor 15,12.16-20, Lc 6,17.20-26
Ci sono scelte nella vita che, per quanto invisibili nell’istante in cui vengono compiute, segnano un destino. Sono decisioni che non urlano, non annunciano la loro gravità con clamore, ma che, col tempo, rivelano la loro natura ineluttabile. Ad ogni scelta, in fondo, noi prendiamo una strada invece che l’altra: decidiamo per o contro la nostra felicità.
A questo bivio ci conduce oggi la Parola di Dio. Geremia ci mette davanti due strade, due destini, due volti della stessa umanità. Da un lato, l’uomo che confida nelle proprie forze, convinto che la ricchezza, il potere, la sicurezza esteriore possano proteggerlo dalla fragilità della vita. Ma è un’illusione, una di quelle che la storia ha già smascherato mille volte. Non se ne rende conto subito, perché all’apparenza sembra che tutto vada bene. Ma quando arriva il vento, quando la vita decide di essere spietata – e prima o poi lo fa con tutti – allora quell’uomo scopre di essere impotente. La Scrittura lo descrive come un arbusto nel deserto, esile, bruciato dal sole, in balia del vento. Si crede forte, e proprio per questo è debole.
Quanti uomini e donne, ricchi di tutto eppure poveri dentro, camminano come ombre, con il cuore arido, a inseguire qualcosa che non sazia mai; quanti sorrisi splendenti nascondono notti insonni; quante mani piene stringono il nulla.
Dall’altro lato, c’è l’uomo che si lascia portare da una fiducia più grande di sé, che non si aggrappa con ostinazione alle proprie certezze, ma si abbandona, come un albero che affonda le sue radici nella terra fertile. Non teme il caldo, non teme la tempesta. È saldo, perché il suo nutrimento non viene da ciò che si vede, ma da ciò che non si vede. Non è uno sprovveduto, non è un ingenuo. È semplicemente uno che ha capito che da soli non si va da nessuna parte, che la vita è più grande di noi e che il controllo è solo un’illusione. È l’uomo che ha compreso che la vera forza non sta nel trattenere, ma nel custodire, che la vera sicurezza non è in ciò che si possiede, ma in ciò che ci sostiene.
Gesù oggi si ferma, alza gli occhi verso la folla, ma parla ai suoi discepoli con parole che sembrano così scandalose, così vertiginosamente opposte alla logica del mondo. «Beati voi, poveri; beati voi, che ora avete fame, che ora piangete, che siete odiati e disprezzati». Quale follia, quale rovesciamento dell’ordine comune delle cose! Chiunque ascolti queste parole con un minimo di realismo direbbe: ma dove? Dove sono felici i poveri? Dove trovano consolazione quelli che piangono? Dove c’è giustizia per chi subisce il male?
Chi ha conosciuto il dolore e la rinascita, chi ha visto la precarietà di ogni gloria terrena, sa che Gesù non sta dicendo una menzogna. Sta dicendo che chi è povero non ha nulla da difendere e quindi è più libero. Che chi è affamato sa riconoscere il valore del cibo. Che chi piange non è anestetizzato dalla superficialità. Che chi è perseguitato ha scelto di stare dalla parte giusta.
Ma Gesù non si ferma qui. Dopo il capovolgimento, arriva l’ammonimento: «Guai a voi, ricchi! Guai a voi, sazi! Guai a voi, che ora ridete». Non è una condanna, ma un avvertimento, simile a quello che il tempo sussurra a ogni impero che crede di essere eterno. Perché chi si sente sicuro nelle proprie conquiste terrene, chi crede di poter bastare a sé stesso, è destinato prima o poi a scoprire che la vita, con la sua imprevedibile brutalità, con il suo talento nel frantumare certezze, non lascia nulla di intatto. C’è un prezzo nel credersi autosufficienti perché se costruisci la tua felicità su cose che possono essere portate via, prima o poi la perderai.
La domanda che la Parola di oggi ci pone è una domanda sottile che scivola nell’anima: dove hai piantato le tue radici? Nel denaro che passa di mano in mano? Nel giudizio degli altri, che oggi ti esalta e domani ti dimentica? Nelle tue forze, così limitate e fragili?
Se nelle tue mani stringi solo ciò che può essere portato via, allora sei già in pericolo. Se la tua felicità dipende da ciò che possiedi, allora hai costruito su un’illusione. Ma se hai messo la tua vita nelle mani di Dio, se hai affondato le tue radici nel suo amore, che non tradisce, che non inganna, che non svanisce, allora nulla potrà spezzarti. Potranno venire la siccità, il dolore, la fatica, ma le tue foglie rimarranno verdi, perché «Cristo è risorto, primizia di coloro che sono morti» (1Cor 15,20), che vuol dire che se Cristo è risorto, allora anche noi risorgeremo.
Non è una frase gettata nel vento, non è un conforto fragile per anime spaventate. È la chiave di tutto, la verità che cambia il volto della storia. Perché se la morte è stata vinta, allora nulla è più veramente perduto. Il dolore non è più un vicolo cieco, ma una soglia. La perdita non è più un baratro, ma un passaggio. La fragilità umana non è condanna ma promessa. E la disperazione che assedia il cuore umano si sgretola davanti a questa verità: non c’è notte che Dio non possa trasformare in aurora, non c’è tomba che la sua voce non possa aprire e svuotare.
Ogni vita, ogni storia, ogni sofferenza attende il suo mattino. C’è sempre un’alba che attende dietro l’oscurità, sempre un nuovo respiro dopo l’agonia, sempre un’aurora in cui la morte lascia posto alla vita. E su questa certezza, e su questa soltanto, l’uomo può riposare senza paura, perché nella logica del mondo tutto finisce, ma nella logica di Dio ogni fine è solo l’inizio di qualcosa di più grande.
È questa la speranza che non delude. Non c’è vento, non c’è tempesta che possa portarla via, perché non è appoggiata su qualcosa di caduco, ma sulla fedeltà di Colui che ha vinto la morte. Davanti a questa speranza, l’uomo può finalmente respirare. Il cuore non ha più bisogno di affrontare la vita come un’eterna lotta per la sopravvivenza, perché è custodito in mani più grandi delle sue.
Don Matteo Borghetto